Sulla convivenza pacifica tra ebrei plurali e diversi
di Giorgio Gomel
Roma, 17 novembre 2021 – Riprendo qui argomenti trattati in articoli e convegni di molti anni fa (in particolare un convegno dei gruppi ebraici progressisti del 1997 e un convegno sul pluralismo promosso dal Gruppo Martin Buber e dal Pitigliani nel 2010). Problemi purtroppo irrisolti. E.M. Remarque avrebbe osservato: “niente di nuovo sul fronte occidentale”.
- UNO – Il convivere di tanti modi di essere ebrei e di vivere l’identità ebraica è un valore essenziale che ha consentito agli ebrei di preservare una loro unità di gruppo nella storia. L’esistenza di identità multiple è stata elemento caratteristico dell’ebraismo. Fino all’Ottocento la distinzione era geografica (sefarditi vs. ashkenaziti); poi ideologica (chassidim vs. mitnagdim; tradizionalisti vs. modernizzanti; ortodossi vs. riformati). Dall’inizio del Novecento il conflitto di identità ha contrapposto da un lato religiosi e “laici”; dall’altro sionisti e antisionisti – questi ultimi, un universo eterogeneo, dagli ortodossi ai bundisti ai comunisti. Dopo il 1948, si è affermata una bipolarità: Diaspora e Israele. Ci sono stati invero rotture e scismi nella storia dell’ebraismo, ma il pluralismo ha prevalso. Forse, come asseriva con la sua arguta precisione Aldo Zargani, si tratta di pluralità, nel senso di una molteplicità di opinioni spesso in conflitto, più che di autentico pluralismo, nel senso di rispetto e confronto civile fra tali opinioni. Oggi la minaccia di una frattura che divida gravemente il mondo ebraico viene dall’affermarsi di un’ideologia integralista: nella sua forma politica – in Israele – si manifesta nell’estremismo nazional-religioso, fautore dell’integrità della terra d’Israele e contrario ad ogni soluzione di compromesso con i palestinesi; nella sua forma “teologica” essa afferma che solo l’ortodossia “pura e dura” è vero ebraismo, mentre gli altri – i non ortodossi – non hanno uguale diritto all’appartenenza, perché assimilati o quasi transfughi dall’ebraismo. Dobbiamo invece affermare un ideale di rispetto reciproco, di apertura delle comunità, di unità, non di chiusura e di esclusione. Affermare una pratica di dialogo, non nel senso di dissolvere le differenze di opinione che vi sono fra ebrei, ma di saperle confrontare e dibattere. Lo stesso ostracismo dell’ebraismo ufficiale e rabbinico verso i nuovi ebraismi che si manifestano in Italia ci deve spingere a difendere i diritti di tutti ad esprimere la propria appartenenza all’ebraismo.
L’ortodossia è minoranza nell’ebraismo mondiale: il che fare dei “non ortodossi” e degli ebrei laici che ne sono maggioranza, e che vogliono tuttavia appartenere all’ebraismo, è quindi esigenza fondamentale.
DUE– Gli ortodossi hanno paura dell’assimilazione, della scomparsa della particolarità ebraica in una società che tutto annulla e omologa, anche se la nozione classica di assimilazione è impropria perché oggi la spinta non è tanto a negare la propria identità ebraica quanto ad affermarla nello scambio con il mondo non ebraico. Non è più, infatti, l’assimilazione liberale-borghese dell’ebraismo dell’800 o quella socialista-rivoluzionaria del ‘900, ma, piuttosto, la ricerca consapevole di un incontro tra culture, quella ebraica e quella “occidentale”. I non osservanti hanno paura dell’indurirsi dell’ortodossia, fino alla perdita della libertà, del proprio diritto ad essere riconosciuti come ebrei a pieno titolo. Queste paure, se non vinte, renderanno il dialogo via via più difficile.
TRE – Un po’ di senso concreto della storia e della demografia ci deve indurre ad attribuire valore preminente alla continuità, alla sopravvivenza di un ebraismo esiguo come quello italiano, invece di rischiare di ridurlo ai pochi depositari “puri e duri” dell’ortodossia. Ebreo non è tanto chi è figlio di madre o di padre ebreo, fra i quali personalmente io non distinguo, ma – come notò alcuni anni fa Jonathan Sacks, rabbino capo di Inghilterra – chi avrà nipoti ebrei, chi sarà stato capace di trasmettere i valori positivi dell’ebraismo, di mantenere la sua capacità di attrarre le generazioni future.
QUATTRO – In Israele, con un governo assai eterogeneo ma dal quale i partiti religiosi sono dopo lungo tempo esclusi, vi sono possibilità di modificare il rapporto malato fra religione e stato e il monopolio di potere del rabbinato ortodosso, una delle disfunzioni della democrazia incompiuta di quel paese. Lo stesso direttore del movimento riformato, Gilad Kariv, è stato eletto alla Knesset nelle file del patito laburista. È possibile che sia finalmente applicato l’accordo circa uno spazio egualitario al Muro del Pianto per ebrei conservative e riformati, accordo che fu approvato dal governo retto da Netanyahu, ma disatteso per l’ostruzionismo dei partiti religiosi. È difficile che si facciano passi avanti sul piano dell’istituire il matrimonio civile, ma su quello delle conversioni da parte di comunità non ortodosse vi è un precedente importante: una sentenza della Corte suprema che consente ad ebrei convertiti fuori del rabbinato ortodosso di essere riconosciuti come ebrei nell’anagrafe potrebbe agire da stimolo a governo e parlamento per legiferare in materia.
Che fare in Italia
Vi è un’esigenza, in primo luogo, di conoscere cosa sta avvenendo in Italia, lungo i confini o al di fuori dell’ebraismo ufficiale, in analogia con altri ebraismi della Diaspora, soprattutto con lo sviluppo fecondo di aggregazioni ebraiche “non ortodosse”, che tendono ad autogestirsi al di fuori delle comunità ufficiali. Ora la Federazione Italiana di Ebraismo Progressivo (FIEP) ha cinque membri: Beth Hillel Roma nella capitale, Lev Chadash e Beth Shalom, entrambe a Milano, Shir Hadash a Firenze e Or Ammim a Bologna.
Tra di noi ci sono modi diversi di riconoscere la propria identità ebraica. Ma ci accomuna il senso di apertura e di dialogo verso coloro che si trovano lungo i confini dell’ebraismo ufficiale. Pensiamo di poter svolgere un ruolo per così dire “maieutico” volto a facilitare il confronto. Nel caso specifico dell’Italia vi è un legame molto stretto tra pluralismo e rappresentanza: il diritto di tutti alla rappresentanza è essenziale perché il pluralismo possa esprimersi appieno, anche formalmente riconosciuto dallo Stato.
Ritengo che sia necessario un patto di convivenza pacifica tra gli ebrei italiani, religiosi e laici, osservanti e non, ortodossi e riformati, che tenga conto della pluralità delle realtà ebraiche in Italia, anche per effetto della globalizzazione, delle migrazioni, della sprovincializzazione di un ebraismo italiano finalmente più esposto al mondo e variegato.
Il patto dovrebbe tradursi nella trasformazione delle Comunità e dell’UCEI, non in una federazione di congregazioni o confessioni ebraiche (difficile da realizzarsi per la scarsità numerica degli ebrei italiani, per il complesso sistema delle Intese con lo Stato, nonché perché ne sarebbero esclusi gli ebrei laici), ma in una “casa comune” degli ebrei residenti nel territorio che li rappresenti tutti su un piede di parità.
L’UCEI potrebbe includere, accanto alle comunità tradizionali, anche aggregazioni e gruppi, senza pertanto sconvolgere il suo Statuto e le Intese con lo Stato; queste associazioni o gruppi potrebbero a loro volta strutturarsi localmente in rapporto con le comunità locali oppure autogestirsi.
Giorgio Gomel è membro per l’Europa del Comitato direttivo di J-link, rete progressista ebraica internazionale, è tra i fondatori di Beth Hillel Roma.