I sacrifici
Iniziamo la lettura di VAIQRA’ (o Vayikra), del Levitico, il terzo libro del Pentateuco, primi cinque capitoli, haftarà del profeta Isaia, capitoli 43-44. Conclusiva annotazione antropologica sui sacrifici umani prima che animali.
di Bruno Di Porto
Così comincia la parashà della settimana, all’inizio del Levitico:
וַיִּקְרָ֖א אֶל־מֹשֶׁ֑ה וַיְדַבֵּ֤ר יְהֹוָה֙ אֵלָ֔יו מֵאֹ֥הֶל מוֹעֵ֖ד לֵאמֹֽר׃
דַּבֵּ֞ר אֶל־בְּנֵ֤י יִשְׂרָאֵל֙ וְאָמַרְתָּ֣ אֲלֵהֶ֔ם
«E chiamò Mosè e parlò Adonai a lui dalla tenda di riunione, dicendo parla ai figli di Israele e dirai a loro … (con quel che segue per i sacrifici da compiere)». Manca esplicitamente il soggetto chiamante e vi sono interpreti che si chiedono come mai. Il soggetto, sottinteso, è il Signore che mette in primo piano, senza nominarsi, il chiamare, il rivolgersi ad un soggetto umano, come quando si rivolse a Mosè la prima volta sul monte Sinai. Quindi viene la chiamata, l’impegno a qualcosa di importante, cioè quel che un uomo, tra di voi, debba fare per compiere un rito sacrificale di avvicinamento al Signore:
אָדָ֗ם כִּֽי־יַקְרִ֥יב מִכֶּ֛ם קׇרְבָּ֖ן לַֽיהֹוָ֑ה
Adam ki iaqriv mikkem qorban
Per «Un uomo tra voi» (adam mikkem) si intende, in prima evidenza, un ebreo, ma agli ebrei si erano uniti elementi di altre etnie nell’uscita dall’Egitto e si unirono poi durante lo stanziamento in terra di Canaan, sicché il termine universale Adam (Adamo) induce ad una interpretazione estensiva ed inclusiva del fedele che desideri avvicinarsi alla divinità. È questa l’interpretazione del commentario Midrash Rabbah, che evidenzia l’uso della parola Adam invece di Ish, comunemente adoperata per un uomo qualsiasi. Adam ha un significato di essenziale, universale umanità: quindi una persona che voglia avvicinarsi a Dio mediante un congruo rito. Il Midrash tiene conto del fra voi che può intendersi in senso etnico, fra voi israeliti, ma lo amplifica in senso inclusivo del non israelita desideroso di avvicinarsi a Dio, mentre esclude il nato israelita che divenga apostata e idolatra (Midrash Rabbah Leviticus, The Soncino Press, Third Edition, 1983, pp. 27-29). Il tannà, maestro, Hiyyà, detto Rabbà, venuto da Babilonia, sul finire del II secolo dell’era volgare, in Erez Israel, stimato discepolo di Yehudà ha-Nasì, confermò l’interpretazione del testo in senso relativamente proselitistico.
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Si entra, di seguito, nelle procedure dei sacrifici, secondo le varie tipologie. La categoria più disinteressata del culto sacrificale era il sacrificio di olocausto, bruciandosi interamente la vittima. Dico disinteressata nel senso di non mangiare l’animale immolato.
עוָֹלָה עלָה
Olà
Per coincidenza, olo ricorre nelle prime sillabe della parola olocausto di derivazione greca, ma con il significato, congruente alla sostanza del fatto, di intero, perché la vittima veniva bruciata interamente (olos – intero, kaustòs – bruciato). Ciò, infatti, avveniva ritualmente anche nella religione greca, in sacrificio agli dèi inferi. Vale ad intendere quanto vi sia di antropologicamente comparabile nella sfera della sacralità.
L’animale, bovino, ovino o volatile, doveva essere maschio e senza difetti. L’offerente lo presentava alla porta della tenda della radunanza, gli poneva le mani sulla testa, a significare che le sue colpe venivano trasferite sulla vittima sacrificale che le espiava. Il sacerdote lo scannava, versando il sangue sull’altare. L’animale veniva poi scuoiato e tagliato in pezzi. Il corpo dei volatili veniva diviso, a cominciare dalle ali, in due parti, non staccate del tutto, a simboleggiare una simmetria e una articolazione duplice entro una unità. Le interiora e le gambe erano ben lavate. Tutte le membra erano disposte sopra la legna che ardeva sull’altare, per la completa consumazione sul fuoco. Il gozzo dei volatili con le piume era invece gettato presso l’altare.
שְׁלֹמָ֖ם
Shelamim è una tipologia di sacrificio. Indica uno stato di tranquillità o di contentezza e riconoscenza dell’offerente, specialmente dopo uno scampato pericolo, sicché era in pace con se stesso e non lo faceva per dovere espiare. Indica che l’offerente adempiva con il sacrificio un voto che aveva fatto, o era comunque un atto di riconoscenza per il buon andamento della sua vita o per il ritorno al benessere dopo uno scampato pericolo, come vien detto nella parashà seguente (capitolo 7, dal versetto 11). In questa categoria di sacrifici poteva essere immolata una femmina. Per lo scampato pericolo, superati i sacrifici, si recita la Birkhat ha-gomel.
La carne dei sacrifici di shelamim era mangiata dai sacerdoti, ma dovevano mangiarla durante lo stesso giorno, o per una particolare motivazione del sacrificio, all’indomani dell’immolazione, mentre ciò che restava al terzo giorno doveva essere bruciato (cap. 7, vv. 15 e seguenti).
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Un’ altra categoria di sacrificio era il Hattat, per espiare una colpa involontaria di infrazione ad una proibizione, ad un precetto negativo, relativo alle cose che non si possono fare.
חַטָּאת
Il Hattat era previsto anzitutto per il sacerdote unto, il quale, peccando nell’esercizio delle sue mansioni, inducesse in colpa la collettività. Quando risultava che fosse avvenuta l’infrazione, egli doveva offrire un toro senza difetti. Dopo averlo scannato, doveva spruzzare il sangue sette volte verso la cortina del santuario, poi aspergere del sangue i corni dell’altare. L’arsione doveva avvenire, in tal caso, fuori dell’accampamento, in luogo non contaminato da cadaveri. Analogo peccato, di trasgressione ad un precetto negativo (riguardante le cose da non fare), poteva esser commesso dalla collettività. Quando si scoprisse una tale azione, dovuta a negligenza collettiva, il sacerdote seguiva, per conto della collettività, la stessa procedura. E lo stesso ancora il sacerdote faceva se si scopriva l’infrazione di un capo laico, capo di tribù o comunque una autorità non sacerdotale, per sua espiazione, sempre sacrificando un toro intero.
Se, invece, a commettere questo peccato di infrazione ad un precetto negativo, era una singola persona del popolo (non la collettività, non un sacerdote, non un capo), quando questa persona se ne rendesse conto o le fosse fatto osservare, bastava per l’espiazione il sacrificio di una femmina ovina, capra o pecora.
Nella prossima parashà, intitolata Zav, vien detto che il sacerdote poteva mangiare della carne del hattat nel cortile della tenda della radunanza (cap. 6, v. 19), purché il sangue non fosse stato portato all’interno del santuario (cap. 6, v. 23) ed allora il hattat era arso interamente. Nel Talmud si dice che al pasto partecipavano tutti i sacerdoti di turno nella giornata.
אָָֹשָם
L’Asham era il sacrificio per espiazione di determinate colpe volontarie, di cui cioè si era consapevoli e che dovevano essere confessate al momento della presentazione dell’animale, imponendo le mani sulla testa dell’animale: colpe per avere assistito ad atti di scongiuro (alà) o esserne al corrente e non averli denunciati e testimoniati; per avere toccato carogne di animali o altre sorgenti di impurità; per avere giurato di fare cosa malvagia o non avere adempito ad un giuramento di fare del bene; per essersi indebitamente appropriati di cose altrui, il che esigeva, oltre il sacrificio, la restituzione con l’aggiunta di un quinto del valore delle cose.
Il sacerdote, bruciando certe parti dell’animale, mangiava la carne dell’asham (parashà successiva, cap. 7, v. 6).
קָרְבַּ֤ן מִנְחָה֙
סֹ֖לֶת שֶׁ֔מֶן לְבֹנָֽה׃
Vi era infine l’offerta farinacea, di fior di farina (solet), con olio (shemen), olibano (levonà), meno costosa, alla portata dei poveri, consona alla nostra sensibilità, ed anch’essa accetta al Signore. A differenza del sacrificio di olocausto con gli animali, quello farinaceo veniva arso in parte e in parte era di alimento per i sacerdoti. Di qui la mizvà, nel fare il pane in casa, di ardere un pezzetto dell’impasto.
L’offerta farinacea non doveva essere lievitata e non doveva essere dolcificata col miele. Doveva invece essere salata, per “non far mancare il sale (melach) del patto del tuo Dio”. Sull’ offerta farinacea si versava olio e si aggiungeva olibano. Veniva fritta o cotta in teglia. Il sacerdote ne prelevava una parte per arderla sull’altare, mentre un’altra parte era di alimento per sé e altri sacerdoti.
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Nella parashà Zav, della prossima settimana, precisando e riepilogando la complessa normativa dei sacrifici di Olà, Hattat, Shelamim, Milluim (iniziazione sacerdotale), viene detto che l’ordine è stato dato dal Signore ai figli di Israele “nel deserto del Sinai”. Ben lo sappiamo dalle parashot precedenti, perché fa parte della Torà, data appunto sul Sinai. Ma lo evidenzio perché, in significativo confronto, la haftarà di Zav è tratta dal profeta Geremia, il quale puntualizza, con parole del Signore, di fare sì, se si sentisse di doverlo fare, i sacrifici di animali, di mangiarne sì la carne, ma avvertendo che Egli, il giorno in cui ha fatto uscire gli antenati dall’Egitto, non ha parlato di sacrifici e olocausti, bensì ha raccomandato di essere davvero suo popolo e di seguire la via del bene: “Lo dibbarti et avotekhem ve lo zivvitim beyom oziì otam meerez Mizraim al divré olà va zevah” – “Non ho parlato ai vostri padri e non ho comandato loro, nel giorno in cui li feci uscire dalla terra di Egitto di cose che riguardano olocausti e sacrifici”.
לֹֽא־דִבַּ֤רְתִּי אֶת־אֲבֽוֹתֵיכֶם֙
וְלֹ֣א צִוִּיתִ֔ים בְּי֛וֹם הוציא אוֹתָ֖ם
מֵאֶ֣רֶץ מִצְרָ֑יִם עַל־דִּבְרֵ֥י עוֹלָ֖ה וָזָֽבַח
Geremia conosce bene il Levitico e tiene conto che sul Sinai è stato dato l’ordine dei sacrifici, ma nel loro ridimensionamento e nel loro potenziale superamento, compiuto dai nostri profeti, egli chiama in causa un momento precedente, e direi preferenziale, del rapporto con il Signore Iddio, al quale ispirarsi per il primato dell’etica sul culto sacrificale. Ezechiele, al capitolo 11, versetto 16, parla di santuario minore (mikdash meat), in cui si ravvisa il concetto e prototipo della sinagoga. Dopo la distruzione del Tempio, si è sostituito il servizio della parola nelle tefillot e si è fatto tesoro dei versetti del profeta Osea: «Ritorna, Israele, al Signore tuo Dio, dopo che sei inciampato nella tua colpa. Prendete con voi parole, tornate al Signore e ditegli Perdona ogni colpa e accetta il bene, e sostituiremo ai tori le parole delle nostre labbra».
Dante Lattes, come altri autori ebrei, ha reagito a chi esagera nel porre i profeti in opposizione alla Torà, tanto è vero che non sempre i profeti hanno criticato i sacrifici. Torà e Profeti non sono opposti, anzi si completano, ma con differenze e con tendenziale superamento del sacrificio animale, in spirituale oralità del culto. Diversità di toni e di insegnamenti si avvertono nella stessa Torà e negli stessi Profeti. Il sacrificio animale non è rifiutato in se stesso dai profeti, ma non è ritenuto sufficiente, se non accompagnato dall’adempimento delle altre mizvot di ordine morale e sociale, e son biasimati coloro che si giustificano in base ai sacrifici, quando manchi la buona condotta morale. Vi è stato comunque, nella civiltà di Israele, il superamento dei sacrifici animali, segnato dalla distruzione del secondo Tempio, perché il Tempio era l’unico posto in cui si eseguivano, e la loro sostituzione con il servizio della parola, che già del resto avveniva a complemento, o a sostituzione, del culto sacrificale fin dall’esilio babilonese in riunioni di tipo sinagogale. Osea, cap. 14, versetti 2-3:
«Torna, Israele, al Signore Dio tuo, dopo che sei inciampato nella tua colpa. Prendete con voi parole, tornate al Signore, ditegli Perdona ogni colpa e accetta il bene e sostituiremo i tori con le nostra labbra (parola delle nostre labbra)». Le parole in quanto esprimano doveri e sentimenti.
שׁ֚וּבָה יִשְׂרָאֵ֔ל עַ֖ד יְהֹוָ֣ה אֱלֹהֶ֑יךָ כִּ֥י כָשַׁ֖לְתָּ בַּעֲוֺנֶֽךָ׃
קְח֤וּ עִמָּכֶם֙ דְּבָרִ֔ים וְשׁ֖וּבוּ אֶל־יְהֹוָ֑ה
אִמְר֣וּ אֵלָ֗יו כׇּל־תִּשָּׂ֤א עָוֺן֙ וְקַח־ט֔וֹב
וּֽנְשַׁלְּמָ֥ה פָרִ֖ים שְׂפָתֵֽינוּ׃
Shuva Israel ad Adonai Eloekha ki khashalta baavonekha
Kehù immakhem devarim veshuvu el Adonai
Imrù elav kol tissà avon vekah tov u neshalmà parim shefatenu
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Moshè Hess (1812-1875), ebreo moderno, profeta della rinascita, rispettoso della tradizione e incline all’evoluzione, nell’opera Roma e Gerusalemme, risponde alla questione postagli da una vera o immaginata interlocutrice, su come la metta con ‘il cruento culto dei sacrifici’, che gli ebrei ortodossi prevedono di restaurare con la ricostruzione messianica del Tempio. Egli risponde di non poter consentire con il proposito di ristabilire i sacrifici degli animali, ma non vuole neppure condannare per il passato quel culto dei lontani avi, perché egli ama Israele in tutto il suo complesso, lungo le diverse epoche, così come l’innamorato ama l’amata nel complesso della sua persona e personalità: “La cicatrice sul volto della mia amata non solo non reca alcun pregiudizio al mio amore, ma mi è altrettanto cara, forse anche più cara dei suoi begli occhi, che si trovano pure in altre bellezze, mentre proprio quella cicatrice è caratteristica dell’individualità della mia amata”. – In realtà, sulla questione specifica, i sacrifici degli animali gli ebrei li avevano in comune, salvo la diversa destinazione, con molti altri popoli, e prendiamo la metafora della cicatrice nella sua pregnante forza di amore (ahavat Israel, amore di Israele). Leggiamo le importanti sue aggiunte, di valore progressivo e insieme problematico, per l’orientamento a superare definitivamente i sacrifici degli animali e per l’umiltà nel disporsi a tener conto dei pareri di tutti gli altri ebrei, comunque con fiducia nella logica dell’evoluzione storica e, direi, morale. Così scriveva Hess: “Se il culto dei sacrifici fosse veramente inseparabile dalla nazionalità ebraica, io lo accetterei senz’altro. Ma fino ad ora e finché non mi si dimostri che è proprio così, io sono convinto del contrario. Nel nostro nobile culto della storia, che procede da una ad altra creazione di luce, e che non spira altro che amore per l’umanità e per la conoscenza di Dio, il culto sacrificale non può esser qualcosa di essenziale né di integrale. Ma nonostante la mia convinzione personale, io non pretendo di arrogarmi il diritto di prevenire la storia. Ci sono dei problemi che sono insolubili a priori, cioè prima del caso pratico, ma che si risolvono da se stessi nel corso dello sviluppo storico. A questi problemi appartiene in generale quello del culto e in modo particolare dello sviluppo di determinate forme e norme del servizio pubblico dallo spirito ebraico religioso di codesto popolo, che è stato in ogni epoca della sua evoluzione il creatore della sua religione”.
La haftarà è tratta dal capitolo 43 del profeta Isaia, invero il Deutero Isaia, un ideale discepolo di epoca successiva, oltre l’esilio degli ebrei in Babilonia, che reca ardenti messaggi di sostegno divino agli esuli di Sion, rassicurandoli sulla premura del Signore per il popolo diletto: «Ed ora così dice il Signore tuo creatore, o Giacobbe, tuo formatore, o Israele, non temere perché ho deciso di salvarti, ti ho chiamato per nome, a me appartieni, quando passerai per le acque sarò con te, quando passerai nei fiumi non ti travolgeranno, quando andrai nel fuoco non ne sarai bruciato, la fiamma non arderà in te».
Si delinea già lo spargimento diasporico e la promessa di riunione degli esuli: «Dall’oriente farò venire la tua discendenza e dall’occidente ti radunerò. Dirò al settentrione da’ (nel senso di fare uscire, emigrare gli ebrei che vi fossero stati condotti o vi fossero emigrati) e al meridione non trattenere. Porta i miei figli da lontano, le mie figlie dall’estremità della terra».
מִמִּזְָרָח אִָבִיא זַרְֶעֶךָ וּמִמַּעֲָרָב אֲקְַבְֶּצֶךָ
אַֹמַר לַקָּפֹוֹן תִֵנִי וּלְתֵיָמָן אַל תִכְלִָאִי
הָבִיִאִי בַָנַי מֵָרָחֹוֹק
וּבְנוַֹתַי מִקְֵצֵה הָאֶָרֶץ
Mimmizrach avì zarekha umimmaarav aqabbezekha
Omar lazzafon tnì uleteiman al tiklaì
Havii vanai merachoq
Uvenotai miqzè haarez
Più in là il profeta rimprovera l’inadempienza delle offerte sacrificali, sintomo di disaffezione del popolo verso il Signore, ma prevale la divina disponibilità al perdono e l’invito divino a discutere insieme per ritrovare la relazione, che era stata già compromessa dal peccato del primo tuo padre (avikha ha-rishon). Si discute a chi il profeta riferisse l’antico padre. Vi è chi pensa a Adamo, ma quel tuo padre sembra indicare un legame più stretto di stirpe, e Rashì lo intende riferito ad Abramo per aver chiesto al Signore, nel capitolo 15 di Genesi, v. 8, dubitando della promessa della terra, da che cosa potesse sapere che la avrebbe ereditata. Abramo aveva poco prima, al versetto 6, espresso fiducia nella promessa di un figlio proprio erede, vincendo il dubbio ben comprensibile per un uomo della sua età. La promessa della terra, di fronte alla realtà delle popolazioni che già la abitavano, gli riuscì ardua ad accettarsi e con la sincerità che lo distingueva, anche nel colloquio con Dio, si permise di chiedere quali segni potessero confortare il realizzarsi di quella promessa. Rashì, dovendo sciogliere l’enigmatico punto, ha individuato in quella dubbiosa domanda un atto irriverente, quindi un peccato. Secondo altre interpretazioni si intenderebbe una colpa di qualche importante personaggio, forse un sommo sacerdote, secondo altri ancora genericamente le colpe di generazioni precedenti. Il rimprovero si rivolge poi ai peccati di idolatria, investendo l’assurdità di venerare dei manufatti artigianali, opera dell’uomo. Il profeta, rivolgendosi al popolo in nome di Dio, immagina che l’idolo sia fatto con il residuo di un legno dal quale, segando altre parti, si era acceso un fuoco per riscaldarsi o per cuocere alimenti nel forno.
Egli vuole evidenziare l’insipienza del culto idolatrico rivolto ad oggetti prodotti dell’uomo, invece di volgersi al Creatore, tanto più che gli eredi di Giacobbe sono vincolati al Creatore da un compito speciale di servizio: «Ricorda questo, Giacobbe, e tu, o Israele, ricorda, ti ho creato perché tu sia mio servo, non mi dimenticare». Ricorda, non dimenticare – Zekor, Lo tinnasheni. I discendenti di Giacobbe son chiamati ad un alto servizio, che esige fedeltà ed impegno, sulla base del ricordo, vincendo la trascuratezza e l’oblio.
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Sacrifici
קַָרַב
קָרְָבָּן
La radice QARAV indica l’avvicinarsi, QAROV vuol dire vicino, quindi anche parente amico. In senso religioso avvicinarsi alla Divinità. Di qui il QORBAN, sacrificio, che comportava ritualmente l’offerta di una vittima. Il Corano, alla sura 22, v. 35, dice a nome di Dio: «Per ogni popolo stabilimmo delle cerimonie, per i sacrifici, affinché menzionino il nome di Dio sugli animali bruti, che Dio ha loro accordato» (edizione Hoepli). Cito anche “Bibbia e Corano. Confronto sinottico”, di Cherubino Mario Guzzetti, ed. San Paolo. Gli animali sono considerati bruti, non tenendo conto che soffrano, non è agevole alla sensibilità umana comprenderlo. Il Corano, come la Torà, concepisce il divino gradimento dell’offerta, che la Torà esprime olfattivamente come un odore grato, reach nichoach, mentre il Corano, più recente, esprime il gradimento divino solo al livello di apprezzamento per l’umana devozione. Nichoach viene anche tradotto con propiziatorio. Nella lettera neotestamentaria di Paolo (Shaul) ai Filippesi le loro offerte, da intendere in carità di doni e denaro, sono accolte come profumo soave, sacrificio accetto e gradito a Dio (traduzione della Bibbia concordata). Già nei Profeti di Israele il maggior gradimento va alle buone azioni, ai buoni pensieri, con sostituzione delle preghiere ai sacrifici degli animali: parole di sentimento e di fede al posto dei tori. La sostituzione è stata istituzionalizzata nella liturgia ebraica dopo la distruzione del Tempio.
La carne degli animali uccisi nei sacrifici, che si dovevano compiere nel Tempio, era in buona parte vitto dei sacerdoti, salvo il più solenne sacrificio di Olà che richiedeva la completa arsione dell’animale, in oggettiva corrispondenza con l’Olocausto dei greci: olos intero, kaustos arso.
Il sacrificio degli animali, che tocca l’animo di quanti avvertano con sensibilità le loro sofferenze, è stato tuttavia nella civiltà di Israele un grande passo in avanti rispetto alla fase preisraelitica del sacrificio umano. La transizione dal sacrificio umano a quello degli animali ha la significativa svolta nell’evitato sacrificio di Isacco, che il Signore ha richiesto ma che il Signore ferma ed evita nel momento culminante, in cui il padre Abramo si accinge a colpire il figlio, sostituendolo con un montone (ail), che compare, quasi mandato lì appositamente, nel capitolo 22 di Genesi.
I sacrifici umani continuarono tra popoli vicini e lontani; tra popoli e culture che neppure si conoscevano tra loro, pensando ciascuno che le divinità li chiedessero e li gradissero, con sofferenza e immolazione non solo di prigionieri e di schiavi, ma anche di connazionali e di parenti, di figli: uomini, donne, bambini, bambine crudelmente uccisi in solenni cerimonie. Eccezionale, ma indicativo, è stato nella storia ebraica il voto compiuto dal condottiero Jefte, che straziato dal dolore, non esitò ad immolare la figlia, venutagli gioiosamente incontro quando tornò vincitore (Shofetim, Giudici, cap.11 ). Giulio Cesare, vissuto nel I secolo a.C., descrive i contemporanei sacrifici umani dei celti, nel De bello gallico. Gli aztechi, popolo capace di monumentali architetture, erano, tra l’altro, convinti di rafforzare la divina potenza solare offrendole il cuore palpitante di vittime sacrificali.
Shabat Shalom,
Bruno Di Porto
Commento al Salmo 126