Conflitto e coesistenza
di Giorgio Gomel
Roma, 15 giugno 2022
Amos Oz, il grande scrittore israeliano, in un suo intervento di alcuni anni fa sosteneva che nel porre fine al conflitto che attanaglia i due popoli un accordo politico che ne risolvesse i punti dirimenti – confini fra i due stati, insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, status di Gerusalemme, rifugiati – dovesse precedere il processo di riconciliazione umana, culturale, antropologica fra le parti; ne fosse, anzi, condizione irrinunciabile.
Il dilemma resta irrisolto e segna ancora pesantemente quel conflitto. Per un complesso di ragioni, dal trattato di pace firmato ad Oslo nel 1993 ai successivi negoziati di Camp David, Taba, Annapolis, fino al tentativo ultimo di mediazione diplomatica condotta dall’Amministrazione Obama nel 2014 – interrotti via via da scoppi ripetuti di violenza terroristica e da fasi di guerra guerreggiata – quel meccanismo virtuoso che avrebbe portato prima all’accordo formale di pace e poi alla solida e duratura coesistenza è fallito.
Contro lo scetticismo di molti rassegnati ad un conflitto tra nemici che appaiono irriducibili, dominati dall’isteria nazionalista e dal rifiuto delle ragioni dell’altro, resta tuttavia forte l’impegno di associazioni dedite alla coesistenza. Fra queste le numerose ONG israelo-palestinesi, giunte ormai a 150, federate sotto l’egida di Alliance for Middle East Peace – di cui presiedo la sezione europea – e che ha promosso alla fine di maggio un incontro di più giorni a Gerusalemme. Circa 400 persone hanno ascoltato interventi di membri attivi in molte di quelle ONG, oltre che di accademici, diplomatici ed esperti del campo, distribuiti in più sessioni dedicate alle generazioni più giovani, alla condizione delle donne nel conflitto, agli strumenti di educazione alla pace, alle forme di azione non violenta. Il lavoro, continuo, sotterraneo, spesso ignorato, di movimenti della società civile che operano congiuntamente a fini di educazione alla pace e coesistenza copre una pluralità di ambiti: sanitario, ambientale, economico, educativo, di difesa dei diritti umani, di dialogo interreligioso. Eccone solo alcune: Parents’ Circle (il foro delle famiglie delle vittime della guerra e del terrorismo), Combatants for Peace, il Centro Peres per la pace, Givat Haviva, Hand in Hand (scuole bilingui arabo-ebraiche), Kids4peace, Ecopeace Middle East, Sikkuy, Medici per i diritti umani, Rabbini per i diritti umani, Standing together, Abraham initiatives, Road to recovery. Un’attività, detta “people-to-people”, volta a superare ostacoli psicologici alla riconciliazione e alla pace che risiedono nella percezione “disumanizzante” dell’altro, dipinto come nemico ingrato e irriducibile.
Il sostegno del resto del mondo è cruciale in questo ambito. Gli Stati Uniti hanno approvato una legge importante – il Middle East Partnership for Peace Act (Meppa) – che stanzia 250 milioni di dollari da destinarsi su un orizzonte di 5 anni in parte allo sviluppo economico del settore privato palestinese e in parte ad iniziative “people-to-people”. I primi fondi sono stati già concessi ad alcune ONG.
Alliance for Middle East Peace opera affinché il meccanismo si trasformi in un autentico Fondo Internazionale per la pace israelo-palestinese, sul modello di quello per la pace nell’Irlanda del Nord degli anni ’90, e con il contributo finanziario di altri paesi. La Gran Bretagna, il Canada, la Francia, l’Olanda, l’Italia e altri paesi dell’Asia e del Medio Oriente hanno manifestato interesse e disponibilità ad avallare il progetto al fine di dare luogo ad un meccanismo pienamente multilaterale
Un comune denominatore che ha ispirato l’incontro di Gerusalemme in dodici diverse sessioni, pur in un contesto così infausto segnato anche nel periodo più recente da episodi di brutale violenza fra israeliani e palestinesi, è che un accordo politico non possa tradursi in realtà sul terreno se non vi è sottostante un processo di riconciliazione fra i due popoli.
Per i palestinesi, in particolare, come hanno affermato diversi esponenti di movimenti dal basso – Zimam, Taghyeer, Holy Land trust. Il problema è da un lato quello di rafforzare istituzioni della società civile data la debolezza e il pericolo di dissoluzione della stessa Autorità palestinese, dall’altro di resistere alle pressioni e minacce di coloro che si oppongono ad ogni forma di cooperazione con Israele, incluse le ONG; infine di potere comunque trasformare attraverso l’azione non violenta le condizioni effettive di vita dei palestinesi sotto occupazione: le risorse idriche, la disponibilità di case, la resistenza ad atti di confisca di terreni ed espulsioni da parte di Israele. Per gli israeliani l’urgenza è sia la difesa di una democrazia incompiuta all’interno di Israele, sia l’opporsi al razzismo antiarabo, non solo da parte dei coloni abitanti negli insediamenti ma che nelle città miste di Israele dove convivono ebrei ed arabi. Secondo una recente indagine dell’Israel Democracy Institute, il 60 per cento degli ebrei di Israele appoggia una separazione fisica nella vita materiale fra ebrei ed arabi (solo il 20 per cento di questi ultimi la ritiene una opzione desiderabile). Quasi il 40 per cento ritiene che gli arabi dovrebbero acquisire terreni abitativi solo nei comuni arabi, quasi il 70 per cento è riluttante ad entrare fisicamente nelle città arabe del paese. Detti risultati sono assai peggiori rispetto a quelli di circa un anno fa, prima dello scoppio della quasi guerra civile fra ebrei ed arabi del maggio 2021; atteggiamenti siffatti sono più pronunciati fra i giovani.
Sul piano politico, se non si giunge ad un accordo sui confini, gli insediamenti e lo status di Gerusalemme, la stessa nozione di “due stati per due popoli” rischia di evaporare nel mondo onirico del mito. L’espansione delle colonie e dei coloni israeliani nei territori (450.000 in Cisgiordania e oltre 200.000 in Gerusalemme Est), la confisca di terre possedute da soggetti privati palestinesi, la demolizione di case e strutture, rendono uno stato palestinese che abbia contiguità ed effettiva sovranità via via più arduo da conseguire. L’esplosione di violenze a Gerusalemme nel 2021, ripetutasi pur in forma meno acuta nei mesi scorsi, innescata da una vicenda che riguarda gli espropri di case abitate da arabi, possedute da ebrei prima del 1948 e che ora movimenti della destra israeliana rivendicano e le corti minacciano di rendere esecutivi, dimostra la fragilità di uno status quo senza pace.
Il fatto più preoccupante di quei giorni fu l’irrompere di forme di violenza tribale all’interno di Israele, in modo inusitato dal 1948, fra cittadini arabi ed ebrei: aggressioni, profanazioni di luoghi di culto, incendi appiccati a case e cose in molte città del paese. Una minaccia alla democrazia ed alla convivenza. La minoranza araba in Israele (circa il 20 per cento della popolazione) soffre di disuguaglianze e discriminazioni sul mercato del lavoro, nell’offerta di istruzione, nelle infrastrutture, ma si va integrando attivamente in alcuni settori della società (sanità, università) ed ambisce ad influire sul corso politico del paese, come provato dalla presenza di un partito arabo per la prima volta nel governo. Una novità importante. Duratura? Difficile dirlo data la fragilità della coalizione al potere e il peso preponderante della destra politico-religiosa nel paese.
Giorgio Gomel – economista e membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno a una soluzione “a due Stati” del conflitto israelo-palestinese.