Di Giorgio Gomel
Come da tempo il mondo ebraico progressista in Israele e nella Diaspora sostiene, solo la fine di un’occupazione di 55 anni della Cisgiordania e la nascita ivi di uno stato palestinese in rapporti di buon vicinato con Israele può assicurarne l’esistenza come stato democratico con maggioranza ebraica. Altrimenti il futuro implica la scelta fra uno stato binazionale arabo-ebraico segnato da una perenne guerra civile fra le due etnie o uno stato esclusivamente ebraico con i palestinesi privati di ogni diritto.
Oggi dopo le elezioni del novembre scorso vinte con meno dell’uno per cento del voto popolare da una coalizione di partiti suprematisti, integralisti e autoritari, che hanno conseguito 64 seggi su 120 nel parlamento, anche in ragione di una clausola di sbarramento del 3,25 per cento del voto che ha escluso due partiti della sinistra giunti appena al di sotto, la democrazia del paese è in pericolo di vita.
Una democrazia non è definita solo dal potere di una maggioranza eletta in libere elezioni. È anche definita dall’esistenza di un sistema di contrappesi in cui il potere giudiziario esercita un’azione di controllo sui poteri legislativo ed esecutivo. In Israele, dove non vi è costituzione per ragioni complesse legate alla nascita del paese e al groviglio della sua storia di 75 anni, l’unico organo abilitato a valutare la conformità di atti di governo alle Leggi fondamentali è la Corte Suprema. I partiti al potere insistono per modificarne il potere consentendo ad una semplice maggioranza parlamentare di annullare eventuali sentenze della stessa Corte a loro sgradite. Inoltre, una democrazia è definita dal rispetto dei diritti delle minoranze, come insegnano anche la stessa vicenda storica degli ebrei nel mondo – minoranza esigua, discriminata e perseguitata – e la Bibbia che insiste nei suoi testi sull’importanza del rispetto dello straniero. La Dichiarazione di Indipendenza di Israele del 1948 impone di assicurare la “completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti indipendentemente dalla religione, dalla “razza” o dal sesso”. Da esponenti dei partiti al potere sono venuti atteggiamenti e atti razzisti contro gli arabi. Nella stessa Dichiarazione si afferma che il paese “sarà aperto all’immigrazione di ebrei dal mondo e al ritorno di essi dalla dispersione dell’esilio”, senza definire il “chi è ebreo”. La Legge del ritorno ha consentito ad ebrei di immigrare in Israele ottenendone la cittadinanza. Le intese di governo impedirebbero tale prassi, definendo in modo più restrittivo l’ebraicità, mettendo in discussione le fondamenta stesse del progetto sionista che ha immaginato Israele come lo stato del popolo ebraico e portando ad una frattura profonda fra esso e l’ebraismo della Diaspora. Inoltre, la coalizione al potere cerca di imporre rigidi standard ortodossi sulle espressioni dell’identità ebraica, come il divieto di preghiera delle donne al Muro del Pianto a Gerusalemme e di spazi egualitari non solo per uomini e donne ma anche per le molteplici correnti dell’ebraismo.
Sul piano dei rapporti con i palestinesi, gli accordi di governo limitano esplicitamente ai soli ebrei il diritto di autodeterminazione sulla terra compresa tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Sarà estesa la legge civile israeliana alla Cisgiordania, il che equivale all’annessione de jure o de facto della stessa. Se infatti in virtù di un regime militare di occupazione come quello in vigore dal 1967 al 1993 per l’intera Cisgiordania e dagli accordi di Oslo di quell’anno per la zona C – circa il 60 per cento della superficie della stessa – il diritto internazionale impone di proteggere la popolazione che vi abita, qualora vi sia un potere civile non vi è alcun quadro giuridico che vieti il sussistere di due leggi diverse e discriminanti nello stesso territorio, l’una per gli ebrei, l’altra per gli arabi. Ciò avviene in un contesto in cui la violenza di formazioni militanti del mondo palestinese e l’azione di repressione dell’esercito israeliano hanno prodotto sul terreno da mese di marzo 2022 vittime e lutti non più registrati dalla fine nel 2005 della seconda intifada.
Un profondo scisma attraversa e lacera dunque la società israeliana. Proteste massicce da settimane di vasti settori dell’opinione pubblica, forme di quasi “obiezione di coscienza” di reparti della riserva dell’esercito – nell’aviazione, nell’intelligence, nella sanità militare, azioni di disobbedienza civile dimostrano la gravità della crisi e il pericolo acuto di una disintegrazione del paese. Il mondo ebraico della Diaspora, dagli Stati Uniti all’Europa all’America latina, con appelli, petizioni e manifestazioni pubbliche (www.jlinknetwork.org, per una sintesi) denuncia il degrado antidemocratico del paese e sostiene cittadini e organizzazioni della società civile di Israele che si sono mobilitati in opposizione alle scelte politiche del governo.
– Giorgio Gomel –