Recensione del libro "L'ebreo spinozista"
di David N. Levy
L’ebreo contemporaneo non-ortodosso non crede, o crede con molte riserve, in alcuni principi fondamentali dell’ebraismo tradizionale. Fra questi ci sono l’esistenza di un Dio personale che fa miracoli del tipo descritto nella Bibbia, che si rivela verbalmente ai profeti e che in particolare rivelò la Torah a Mosè parola per parola. Raramente un tale ebreo si chiede perché non crede in questi principi. Se lo facesse, troverebbe probabilmente che i suoi dubbi risalgono, in ultima analisi, all’Illuminismo e in particolare al pensiero del filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza (1632-77). È Spinoza che, senza essere lui stesso un fondatore dell’ebraismo non-ortodosso, stabilì delle premesse che, insieme ad altre, consentivano di costruirlo. Quindi oggi l’ebreo non-ortodosso che vuole capire se stesso e i fondamenti delle proprie opinioni non può permettersi di ignorare Spinoza. Da qui il significato del titolo del libro di Federico D’Agostino: “l’ebreo spinozista” è l’ebreo moderno. E questo rapporto vale non solo per gli ebrei; tutte le persone moderne abitano “in un cosmo religioso” (o non-religioso) che è “largamente spinoziano.”
Che Spinoza abbia fortemente influenzato il pensiero ebraico moderno non significa, ovviamente, che tutti i pensatori successivi siano stati pienamente d’accordo con lui. Ma D’Agostino mette in luce come anche i suoi critici più aspri, come Hermann Cohen, dimostrano di accettare elementi importanti delle sue dottrine. Quali sono queste dottrine?
All’età di 23 anni Spinoza viene scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam. Il testo della scomunica lo accusa di “abominevoli eresie” senza specificarle. Ma nel Trattato teologico-politico (TTP) e nell’Etica Spinoza avanzerà tesi chiaramente incompatibili con qualsiasi ortodossia biblica, sia cristiana che ebraica. (In effetti l’avversario più importante per Spinoza, l’ostacolo principale alla società liberale che lui desidera promuovere, è l’ortodossia cristiana, come giustamente osserva D’Agostino; anche le critiche di Spinoza dei “farisei” nel TTP sono da leggere a mio avviso come critiche velate della teologia cristiana e non, come suggerisce D’Agostino, come prove di un sentimento anti-ebraico.) Fra queste tesi eretiche ci sono le seguenti: Dio non è separato dal mondo; Dio e natura sono la stessa cosa, e quindi Dio è per così dire assolutamente vincolato dalle leggi naturali. In altre parole, Dio agisce per necessità e non per libera volontà; è libero solo nel senso che non viene determinato da una causa esterna. Segue che non ci possono essere miracoli nel senso di cose che accadono contro la natura, la quale “conserva in eterno un ordine fisso e immutabile” (TTP, cap. 6). Ciò che viene comunemente chiamato un miracolo è un evento di cui si ignora la causa naturale.
La Scrittura presenta certi eventi naturali come miracoli per muovere gli animi del volgo all’ammirazione, alla devozione, e quindi all’obbedienza del suo insegnamento fondamentale, che è un insegnamento puramente morale: di praticare la giustizia e la carità, ossia di amare il prossimo. Il praticare la giustizia e la carità è la prova necessaria e sufficiente che uno è credente e pio, quali che siano le sue opinioni teologiche e le sue osservanze delle forme e cerimonie religiose. Con queste affermazioni Spinoza intende eliminare i motivi dell’intolleranza e della persecuzione religiosa, e in particolare della repressione del pensiero filosofico e scientifico: ognuno dovrebbe essere libero di pensare ciò che vuole e di dire ciò che pensa, a patto che le sue azioni siano in conformità con la suddetta morale.
Un altro strumento importante con cui Spinoza toglie autorità agli intolleranti è il metodo storico-critico di leggere la Bibbia, metodo del quale è uno dei fondatori. Nel TTP Spinoza si dilunga sul fatto che il testo biblico contenga molte contraddizioni, ripetizioni inutili, problemi di cronologia e altri difetti. Per i rabbini questi difetti erano solo apparenti e nascondevano verità profonde, ma per Spinoza sono reali e insieme ad altre prove portano alla conclusione che, per esempio, la Torah non fu scritto da Mosè, come vuole la tradizione, ma da un’altra persona molti secoli dopo, forse Ezra, che raccolse storie di diversi autori e le mise insieme in modo non molto ordinato. È ovvio che questa conclusione tende a diminuire la fede nella verità storica dei fatti narrati e in genere nell’autorità della Scrittura. Ciò non toglie, insiste (prudentemente) Spinoza, che la Bibbia venga giustamente chiamata parola di Dio e sia perfettamente affidabile in quanto insegna la vera religione, che consiste appunto nell’amare il prossimo. D’altra parte, questa religione è iscritta non solo nei libri sacri ma anche nelle menti di tutti gli uomini (TTP cap. 12).
D’Agostino descrive in modo chiaro e sintetico sia i principi centrali della filosofia di Spinoza, sia l’impatto profondo di questa filosofia sul pensiero ebraico successivo, da Moses Mendelssohn a Franz Rosenzweig e Martin Buber. Anche il sionismo, da Moses Hess a David Ben Gurion, ha tratto molta ispirazione da Spinoza, tant’è che Ben Gurion lo chiamò “il primo sionista degli ultimi tre secoli.” È un resoconto breve ma suggestivo che stuzzica l’appetito del lettore ad approfondire i temi toccati.
Nelle parole di Leo Strauss, “l’ebraismo moderno è una sintesi fra l’ebraismo rabbinico e Spinoza.” L’ebreo spinozista si conclude ponendo la domanda, scomoda ma necessaria, se questa sintesi è sostenibile. Una prospettiva veramente religiosa può conciliarsi con il concetto spinoziano di un mondo senza un Dio personale e senza miracoli? O se si vuole rinunciare alla religione e basare l’ebraismo sul sentimento di appartenenza ad un popolo o una cultura, “è ragionevole”, chiede D’Agostino, “scommettere sulla resistenza di questo sentimento di generazione in generazione,” contro le forti tentazioni all’assimilazione in una società liberale (un’assimilazione prevista e forse augurata dallo stesso Spinoza nel TTP, cap. 3)? Infine D’Agostino ci esorta ad “ingaggiare un confronto—anche polemico—con Spinoza,” il pensatore che è fonte sia della libertà dell’ebreo moderno sia della sua perplessità su cosa fare, ebraicamente, con quella stessa libertà.
Un vero confronto, polemico o no, con Spinoza naturalmente non può dare per scontato che le sue tesi siano valide. Per esempio, come indica D’Agostino nel primo capitolo, bisogna considerare se Spinoza ha realmente dimostrato l’impossibilità dei miracoli o se invece (come ha sostenuto Strauss) l’ha presupposta. Quanto al metodo storico-critico, bisogna considerare se questo è rimasto l’unico modo in cui una persona illuminata può leggere oggi la Bibbia, oppure se, come ha sostenuto per esempio Robert Alter, il testo biblico, a prescindere dalla storia della sua composizione, possiede nella sua versione finale una profonda coerenza letteraria. (Alter ci ricorda che in un’opera letteraria ci possono essere “molti generi di ambiguità e di contraddizione, e varietà abbondanti di ripetizioni, che sono del tutto intenzionali” [Genesis: Translation and Commentary, 1997, p. xliii]). Altra questione di non poca importanza, cui accenna D’Agostino, è quella di Maimonide: il grande razionalista che a differenza di Spinoza è rimasto dentro la comunità ebraica. Esiste anche un’opzione “maimonidista” per l’ebreo moderno? Dobbiamo essere grati a D’Agostino per averci stimolato a riflettere su questi e altri temi vitali.
David N. Levy
Federico D’Agostino, L’ebreo spinozista. Prefazione di Piero Stefani. Ed. Marietti1820, 2023 (pp. 73, €8,50)